martedì 8 settembre 2009

LEADERSHIP: SOSTANZA E NON APPARENZA!


Di seguito riporto un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore davvero molto interessante. Ritengo che chiunque voglia assumere un ruolo da "leader" nel proprio contesto professionale debba, indipendentemente dalla carica formale ricoperta, leggere con attenzione...
Intorno all’idèa di leadership, potrebbe essere utile ricordare il sociologo che in modo più lucido ed esplicito ha parlato per primo dell’autorità carismatica in Occidente. Sto pensando a Max Weber. Egli, non solo nella sua opera della maturità Economia e società, ma ancora prima nella sua riflessione La politica come professione, ha indicato nel possesso di un insieme di qualità personali le ragioni dirimenti dell’autorità. 
Lui, di certo, si riferiva esclusivamente alla leadership politica. Non erano allora maturi i tempi per un’analisi a più ampio spettro della dinamica del coinvolgere volontà e dell’escogitare obiettivi. Oggi, invece, siamo convinti che la leadership non è esclusivamente quella politica e non è esclusivamente rinchiusa nel recinto nazionale.
«Un leader – diceva Weber – è colui che incarna un determinato insieme di valori in un determinato ambito d’azione e che è ritenuto dagli altri capace di indirizzare un gruppo di persone a compierli efficacemente». Lo studioso austro-tedesco Peter Drucker, quasi argomentando quest’affermazione, ha osservato con grande acutezza che un leader non è mai una persona singola ed irripetibile, simile cioè ad un grande artista o ad un grande scienziato. Un leader non è mai tale solo per se stesso. Può darsi che esistano leadership non carismatiche, ma non possono esserci leadership sconosciute e non giudicate tali da nessuno.
Lo psicologo Daniel Goleman ha codificato ulteriormente una serie di stili che definiscono le diverse leadership. Non possiamo avventurarci ovviamente in un’analisi dettagliata della sua proposta. È interessante ricordare, però, la definizione d’insieme che egli sostiene, la quale consiste nel rilevare che «colui che possiede una leadership accende il nostro entusiasmo e riesce a darci la giusta carica facendo leva sulle nostre emozioni».
Quella di Goleman, in fin dei conti, non è una cattiva sintesi, anche se, tuttavia, si nota subito in essa una certa fragilità, un limite che vizia il suo discorso generale. Non è importante per lui, in fin dei conti, come sia esercitata la leadership e su chi. L’essenziale per lui è suggestionare sul piano emotivo e convincere con persuasività gli altri ad intraprendere un’azione o almeno una direzione di azione. Sebbene sia possibile in tal modo far fare agli altri delle cose con facilità, far leva unicamente sulle emozioni non è esprimere però veramente una leadership.
Anzi, senza ulteriori garanzie, presto un leader emotivo spingerà a fare degli errori e creerà delusione, con un connesso deteriorarsi della sua influenza. Sicuramente per un po’ egli rimarrà capace di convincere un pubblico suggestionato, ma, con il passare del tempo, in assenza di elementi razionali, anche una leadership emotivamente forte si trasforma ben presto in un evento estemporaneo, debole e inefficace.
Malgrado, dunque, la leadership sia l’arte di produrre il consenso, e questo lo si vede anche nelle imprese economiche ed industriali in cui quest’abilità è particolarmente necessaria, è chiaro che non è possibile una valorizzazione piena di una determinata leadership, se non vi è una consistente presenza di contenuti forti nella strategia intrapresa. Perché proprio questi contenuti forti sono in grado di porre in essere la vera affidabilità personale di chi guida gli altri verso determinati obiettivi. Erano quell’insieme di valori che fondameno la leadership a cui si riferiva Max Weber.
La proposta di obiettivi e il successo futuro che ogni leadership offre,rimane sempre interamente nel presente: cioè, il leader presenta sempre una promessa di futuro. Il non poter esaurire o evitare il rischio significa, in definitiva, che tutti debbano fidarsi delle doti non tanto emotive o tecnicamente geniali di un singolo, quanto piuttosto delle garanzie di consistenza umana di qualcuno, il quale serenamente sappia condurre i giochi nelle difficoltà, essendo come gli altri e più degli altri pronto, tra l’altro, a rinunzie e sacrifici.
Quanto più il rischio è grande, tanto più il valore delle scelte scivola nella razionalità di chi si assume la responsabilità di decidere e far decidere. Non è l’irrazionalità fideistica a mettere in moto il consenso duraturo, ma l’accertata validità personale di chi decide. E questa qualità specifica della vera leadership la si chiama fiducia. E potrebbe forse essere descritta così: la volontaria disponibilità a rendersi vulnerabile all’azione di un’altra persona giustificata da aspettative positive sulle intenzioni e le proposte che vengono dalla persona considerata leader. Così, la questione della fiducia e della responsabilità torna ad essere realmente essenziale.
La fiducia coinvolge, però , non solo la parte emotiva della persona, ma l’insieme della sua razionalità e della sua libertà. Di qui la profonda differenza che separa l’atteggiamento di chi, a qualsiasi costo, punta a vincere col consenso (ossia a realizzare quel risultato comunicativo che Habermas chiama «agire strategico») da chi punta, invece, a con-vincere gli altri della validità di un’opzione.
La questione leadership, dunque, non è una questione di forma o di apparenza ma di sostanza o se si vuole, di valori. Di due tipi di valori: quelli impliciti nella proposta operativa, nei traguardi che la leadership presenta, così come dei valori posseduti dal leader. E tra questi, potrei menzionare cinque che mi sembrano essenziali nel loro interagire con la gente: consistenza umana, integrità, capacità di comunicare, saper delegare, saper esercitare una obiettiva valutazione degli altri e disposizione o capacità per il cambiamento. Sono delle caratteristiche legate più al leader che alla carica che ricopre.
Se non fosse così, non si spiegherebbe perché alcune persone malate o anziane, come ad esempio il più che novantenne Nelson Mandela, non abbiano perduto la loro capacità di leadership, malgrado tutto. Nei tanti anni che ho lavorato con Giovanni Paolo Il mi sono trovato molte volte ad avere a che fare con momenti di grande difficoltà, addirittura talvolta d’estrema drammaticità. E nella forza della leadership di Wojtila era sicuramente la calma ponderazione razionale degli obiettivi nel caso concreto, un processo intelligente e pratico di discernimento personale che lo conduceva ad individuare e a perseguire l’opzione migliore, eticamente fondata, pure nel frangente peggiore. Mi ricordo di aver riconosciuto, in quegli anni, alcune doti del leader in personaggi così diversi tra di loro come Michael Gorbaciov, Ronald Reagan, Vacklav Havel, Helmut Kohl, Cory Aquino e, per uscire dall’ambito politico, Alexander Solzenicyn.
Saper far convogliare la volontà di molte persone verso un solo obiettivo, saper portare sempre le considerazioni altrui verso un’intesa decisiva, è questo quanto possiamo realmente definire come espressione corretta di una leadership consolidata.
Mancherebbe accennare alla dialettica tra leadership e opinione pubblica. L’opinione pubblica riconosce di solito la leadership. E il leader accetta il riconoscimento che della sua leadership fa l’opinione pubblica. Ma il vero leader sa resistere alla suggestione di configurare la sua leadership in funzione dell’immagine che di essa diffonde l’opinione pubblica. Normalmente, una persona costruisce il suo carattere dall’interno verso l’esterno. 
Se la sfera interiore – cioè, le convinzioni intime, i valori, e i progetti che presenta alla gente – rimane relegata in un ambito remoto ed è sottomessa alla sua immagine pubblica, allora comincia un processo di inautenticità, la sua persona rimane molto fragile e finisce per non riuscire nemmeno a recuperare il rapporto con se stesso.
tratto da Il Sole 24 Ore del 6 settembre 2009 via Ferpi 

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